Secondo la ricerca gli scopi riconosciuti ai selfie sono soprattutto “far ridere e divertire gli altri” (39%), “vanità” (30%) e “raccontare un momento della propria vita” (21%). Niente di sconvolgente, fin qui. Chissà se hanno intervistato anche i personaggi Disney…
L’indagine della Cattolica e di IBSA è stato presentato oggi durante un incontro tra studiosi ed esperti internazionali dei social media per discutere l’impatto di tali dei social media nelle nostre vite e, soprattutto, affrontare il tema se esse abbiano un ruolo, o meno, nel modificare la nostra individualità. L’incontro dal titolo “Mente e social media: come cambia l’individuo?” ha visto la partecipazione di Silvia Misiti, Direttore di Fondazione IBSA, Gianni Riotta, Kate Davis, Giuseppe Riva, con la moderazione di Pierangelo Garzia.
Un aspetto rilevante dei social media riguarda il tipo di vissuti emozionali ed aspettative che riponiamo in essi. Ma che tipo di emozioni nutriamo noi italiani verso i social media? «In Italia – ha dichiarato Giuseppe Riva, docente di Psicologia della Comunicazione e Psicologia e Nuove Tecnologie della Comunicazione presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, autore di Nativi Digitali (Il Mulino) – abbiamo una relazione più affettiva con il mezzo tecnologico. Il social diventa l’equivalente virtuale dei luoghi di aggregazione del passato, facilitato dal fatto che ognuno può disporre di questo “luogo virtuale” a casa propria, o in qualsiasi parte si trovi. Facebook risponde alla natura degli italiani, in particolar modo per la sua funzione di connessione affettiva e rassicurante».
«Un selfie – ha spiegato Riva – è da considerarsi differente da un semplice “autoscatto”, il quale non prevede la componente social della condivisione, e anche da un self-shot, termine che nel contesto dei nuovi media è arrivato a identificare le fotografie di se stessi a tema erotico».
«La nostra ricerca, tuttora in corso – ha spiegato il professore – ha tre obiettivi conoscitivi principali:
– Comprendere perchè le persone si fanno i selfie (quali motivazioni le spingono)
– Se ci sono differenze tra uomini e donne per quanto riguarda questa pratica
– Analizzare le possibili caratteristiche psicologiche, dal punto di vista della personalità, delle persone che si fanno selfie
La ricerca ha già mostrato dei risultati preliminari interessanti per quel che riguarda tutti e tre gli obiettivi (agosto-ottobre 2014). 150 partecipanti (35% maschi, 65% femmine), con età media di 32 anni, hanno completato un questionario sui dati anagrafici; uno sul loro utilizzo di social media, sull’attività del selfie e sulle motivazioni associate ad esso; il questionario Big Five Inventory per la misurazione dei tratti di personalità.
Sul primo obiettivo della ricerca, è emerso che gli scopi riconosciuti all’attività del selfie sono soprattutto “far ridere e divertire gli altri” (39%), “vanità” (30%) e “raccontare un momento della propria vita” (21%). Quanto ai motivi per cui le persone si fanno i selfie, emerge che se li fanno non tanto per esprimere come sono o come si sentono (identità, aspetti interiori) bensì per raccontare agli altri con chi sono, dove sono e cosa stanno facendo (aspetti esteriori).
Per quanto riguarda il secondo obiettivo, le donne si fanno notevolmente più selfie degli uomini, e risultano più interessate alle motivazioni interiori. Inoltre, affermano di sperare maggiormente di ricevere commenti positivi dagli amici sui social network, e anche di temere maggiormente di ricevere commenti negativi dagli altri.
“Per quanto riguarda l’ultima domanda di ricerca – conclude Giuseppe Riva – sono tre gli aspetti della personalità che risultano associati all’attività del selfie. Le persone che si fanno selfie appaiono significativamente più estroverse (ovvero più socievoli ed entusiaste, caratterizzate da elevate capacità sociali) e più coscienziose (ovvero più caute e capaci di controllarsi, con la tendenza a pianificare le proprie azioni piuttosto che ad agire di impulso). Inoltre, essere molto estroversi si associa a un maggior utilizzo dei selfie per mostrare agli altri “come ci si sente”, mentre essere molto coscienziosi si associa al non essere particolarmente interessati ai commenti degli altri ai propri selfie, positivi o negativi che siano. Da ultimo, il tratto del neuroticismo o instabilità emotiva (tipico di persone che tendono a provare emozioni negative come rabbia e tristezza, sovente diffidenti nei confronti degli altri) si associa significativamente all’essere particolarmente preoccupati dalla possibilità di ricevere commenti negativi».
«La società italiana sta rallentando – ha commentato il giornalista Gianni Riotta – l’Italia ha paura dell’innovazione, va online ma non utilizza il web con lo stesso atteggiamento di ricerca che si riscontra all’estero. Ricerche internazionali ma anche nazionali da anni mostrano una predilezione italiana per i social network (e soprattutto per FB rispetto a Twitter ad esempio, fatta eccezione per i giovani che prediligono Twitter e Whatsapp). Se usiamo il web in modo intelligente abbiamo accesso a una tecnologia che apre possibilità e per questo è affascinante. Dobbiamo ricordarci però che dietro alla tecnologia ci sono le persone: pensiamo al successo di alcuni personaggi, come lo stesso Papa Bergoglio, per la forza del loro messaggio e la capacità di fare engagement».
Infine, con l’intervento di Kate Davis, professoressa associata all’University of Washington Information School, autrice con Howard Gardner di Generazione App. La testa dei giovani e il nuovo mondo digitale (Feltrinelli), si è entrati nel vivo di una domanda cruciale: quali sono le implicazioni nello sviluppare la propria mente e la propria identità in un mondo digitale? Nel suo intervento, Davis ha esplorato il ruolo dei media digitali in tre aree vitali della vita adolescenziale: l’identità, l’intimità e l’immaginazione. Basandosi su un ampio e vario programma di ricerca svolto con i colleghi della Harvard University, Davis ha esplorato sia le potenzialità che gli svantaggi delle nuove tecnologie multimediali per i giovani di oggi.
La metafora della “app” servirà ad illuminare gli usi di una tecnologia che promuove un forte senso di identità, favorisce relazioni profonde, stimola la creatività, e anche gli usi che pongono sfide per lo sviluppo dei giovani nelle tre aree vitali summenzionate. «Le app e le altre tecnologie multimediali – sottolinea Kate Davis – di per sé non inducono la gente a comportarsi in un certo modo, è l’interazione tra tecnologia e società che incoraggia certe forme di comportamento, auto-espressione e comunicazione, come allo stesso tempo come ne scoraggiano altri».
Tratto da gizmodo.it